Costituzione di Virtual Coop: l’antefatto

L’idea

Tutto ebbe inizio una sera all’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza dove era stata organizzata una cena, alla quale ero stato invitato perché allora collaboravo con loro. Lì fui avvicinato da Francesco Picciolo, Presidente dell’ANMIC di Bologna, con il quale avevo avuto già altri incontri e mi propose l’idea: «bisognerebbe fare una Cooperativa Sociale composta da disabili per operare nel settore dell’informatica». In un primo momento, devo dire che non gli diedi molto credito, Francesco era una persona molto effervescente con molte idee, ma la mia impressione di allora, come di adesso, è che chi ha molte idee alla fine ne realizza poche. Non ricordo più cosa gli dissi, ma cercai di prendere tempo dicendo che francamente mi sembrava un mercato ormai saturo, pieno di imprese che fanno questo tipo di attività.

Allora la mia esperienza nel settore dell’informatica non era ancora proiettata verso il mondo di Internet, ma era limitata a poche cose che avevo fatto: il trattamento dei testi, l’amministrazione, l’impaginazione, la grafica. Queste erano le cose a cui pensavo quando mi si parlava di informatica… Infatti, per realizzare una rivista che gestivo, mi servivo di fornitori per l’impaginazione e per questo mi sembrava che il mercato fosse saturo, anche perché come sempre succede, quando si parla con un fornitore, questo si lamenta di aver sempre poco lavoro, di non guadagnare abbastanza. Insomma, non mi pareva il caso di mettermi in concorrenza.

In realtà, in quel periodo mi stavo interessando, grazie anche a Francesco Picciolo, alle teorie dell’autodeterminazione dei disabili. Non a caso, mi ero avvicinato con interesse all’ANMIC dopo la scomparsa del suo capo storico e fondatore. In particolare, ero entusiasta del nuovo dinamismo che Francesco le stava imprimendo, cercando di rinnovare e rilanciare un’Associazione da molto tempo assopita ed anchilosata su antichi allori. Stavo bene in un’Associazione dove per iscriversi occorreva esibire il certificato di invalidità, mentre molte altre realtà dell’handicap erano occupate da genitori invadenti ed arrivisti di ogni genere.

L’autodeterminazione

Dopo aver lavorato e vissuto senza occuparmi troppo del fatto se fossi o meno disabile, avevo allora pochi anni sopra i 40 e cominciavo ad accorgermi che l’integrazione dei disabili nella società di tutti, era più un fatto di facciata che di sostanza, per cui cominciai a pensare che i disabili dovessero percorrere la strada che avevano percorso già altre minoranze: le donne, i neri, ecc… e quindi il ragionamento sulla Cooperativa sociale cascava a fagiolo. Un ambiente autodeterminato che potesse sviluppare capacità e competenze che altrimenti restavano all’ombra dei normodotati.

Avevo lavorato per tutti gli anni ’80 in una Cooperativa sociale, la Spep Coop, che faceva servizi alla persona, quindi gestivamo anche servizi per handicap: ero un disabile al di là della barricata, dalla parte di chi comandava e determinava la vita altrui, con intelligenza ed umanità, ma sempre in una posizione di forza. Alla Spep feci una carriera in discesa: Presidente, Vicepresidente, responsabile delle Pubbliche Relazioni. Quando la Cooperativa fu costretta a chiudere, malamente, fui tra i primi ad essere decapitato e certamente con ottime motivazioni, vista l’inutilità del mio ruolo.

Immerso in tutte queste consapevolezze, cominciai a riflettere e a parlare con le persone che conoscevo sull’opportunità di costituire una Cooperativa tra disabili, indipendente e capace di dialogare alla pari col mercato e con il mondo circostante.

Dopo la catastrofe della Spep Coop, avevo costituito la Società Idee che si occupava di editoria, soprattutto in campo socio-sanitario ma, che ormai da due anni, non riusciva a decollare, d’altra parte nel settore editoriale si assisteva ad una polverizzazione dei punti produttivi, grazie anche all’introduzione delle nuove tecnologie che abbattevano in maniera sempre più consistente gli investimenti necessari per la produzione. In particolare chi voleva fare impaginazione e pre-stampa poteva farlo direttamente con un normale PC, senza la necessità di fare particolari investimenti. Questa era la situazione che si presentava ai miei occhi e, consultati anche esperti di Marketing nel settore editoriale e pubblicitario, ebbi riscontri positivi e veramente incoraggianti. Decisi quindi di partire.

I magnifici 9

Presa questa decisione cominciai a sentirmi come Yul Brynner nei “Magnifici sette”, solo che io ne dovevo trovare almeno 9 di eroi, numero minimo previsto dalla normativa di allora per costituire una Cooperativa. Ebbi subito la sensazione di immettermi in una impresa se non eroica, almeno innovativa ed inusuale.

Le Cooperative sociali di tipo B che conoscevo allora erano tutte per così dire etero-dirette. A un certo punto un gruppo di persone, spesso operatori sociali, decideva di metter su qualcosa per dare lavoro ai disabili e così avveniva. Questa volta, invece, erano i diretti interessati a doversi organizzare per darsi un futuro, una qualificazione professionale, una dignità personale. Guarda caso mi venivano anche in mente le prime società di mutuo soccorso e i primi tentativi di auto-organizzazione del movimento operaio dell’inizio del ’900.

Con questa confusione in testa mi trovai un giorno in via Barberia alla sede dell’allora PDS, dove incontrai la prima recluta Marcello Camilli, un ragioniere affetto da nanismo che come sovramercato aveva avuto un incidente, che lo aveva ulteriormente inabilitato, che mi espresse il suo interesse a partecipare e io già sognavo di avere l’amministrazione coperta e garantita da un vero professionista.

© Credits: www.listal.com

Qualche settimana dopo mi venne a trovare nell’ufficio di Idee un distinto signore arabo in carrozzella che, presentato dalla moglie, un’infermiera con una gran chiacchiera, era interessato alla Cooperativa perché in cerca di lavoro. Si trattava di Fathi El Gundhi di origine libica, ma che a causa del suo handicap aveva studiato in Inghilterra ed era poi finito a Bologna a Villa Salus per ulteriori cure. Sposatosi con l’infermiera, dopo un periodo di traduzioni ed insegnamento dell’inglese era rimasto disoccupato e cercava soluzioni. Subito lo battezzai come segretario, visto che non aveva competenze specifiche in materia di computer, ma almeno sapeva usare Word. In questo mio peregrinare entrai in contatto con ASPHI, una Associazione di matrice IBM che già allora si occupava di formazione ed inserimento lavorativo di disabili nell’ambito informatico.

Il contatto fu con un certo Luigi Rossi che aveva evidentemente un problema: collocare al lavoro un gruppo di ragazzi sordi, che avevano fatto un corso presso l’Associazione. Mi invitò al saggio finale del corso, dove ognuno dei ragazzi presentò il lavoro che aveva fatto. Il corso riguardava l’apprendimento delle tecniche riferite al Desktop Publishing con l’idea che delle persone sorde potessero applicarsi proficuamente e con competenza ad attività lavorative di tipo grafico. Finito il saggio, di cui in vero capii ben poco, fui presentato alla scolaresca. Fu quello il primo incontro che ebbi con il mondo dei sordi, i quali al primo contatto si presentano molto bene, con un atteggiamento accattivante e seduttivo, che in realtà nasconde il disagio di non capire molte delle cose che li circondano. Presentai l’idea della Cooperativa e l’atteggiamento prevalente fu molto indicativo della loro filosofia: piuttosto che non far niente, facciamo la Cooperativa. E così furono in 5 ad aggregarsi.

Mancava ancora il pistolero più importante… Negli anni ’80 avevo visto un disabile armeggiare con il computer nel palazzo della Lega delle Cooperative e l’avevo subito battezzato come un grande esperto di informatica, non sapevo il nome, ma mi pareva che lavorasse per il Magic Bus, una delle prime Cooperative a lavorare nel settore dell’informatica. Feci le solite ricerche e scoprii che aveva cambiato lavoro e che si chiamava William Vacchi. Contattato, anche a lui l’idea interessava.

Le associazioni dell’handicap: l’indifferenza

Nel frattempo stavo facendo il giro delle sette chiese, obbligatorio a Bologna, città molto istituzionale e chiusa nei suoi equilibri. Le sette chiese erano per me rappresentate dalle Associazioni dell’handicap, senza il cui consenso, ancorché tacito e passivo, avevo l’impressione di partire col piede sbagliato. Dell’AIAS sapevo tutto, era stata per molto tempo la mia Associazione e per diversi anni ne ero stato anche consigliere. Tuttavia l’unico che poteva seguirmi in questa avventura era Luca Pieri, che però era impegnato con la rivista «Hparlante» e, in quell’occasione, ebbi modo di scoprire che la sua propensione all’avventura non era poi così spiccata come credevo.

Un’altra tappa del mio peregrinare fu costituito dall’Associazione Sclerosi a Placche, nella quale andai in un giorno grigio di primavera, in cui faceva ancora un gran freddo ed era umido e nebbioso. La loro sede era ricavata da un minuscolo negozio in via Alessandrini, e mi pare sia ancora lì. Con dei cartoni avevano ricavato un angolo per gli obiettori, dove dormivano in un letto a castello. Si trattava fondamentalmente di un postaccio.

Incontrai un personaggio che mi dimostrò un interesse opaco e sbiadito come tutto l’ambiente circostante, in seguito non se ne fece più niente.

Più interessante fu l’incontro con Roberto Alvisi, Presidente dell’Uildm di Bologna, che mi piantò un chiodo che non finiva più, mettendomi in guardia sulla necessità di fare un’attenta valutazione dei rischi e delle opportunità che l’impresa poteva comportare. Sottolineando, con dovizia di particolari, che prima di muoversi occorreva fare decine, se non centinaia, di simulazione per capire se la Cooperativa poteva stare in piedi. Al ché, decisi di tagliar corto dicendo che, secondo me, era sufficiente un fatturato annuo di 350 milioni. A quel punto, fece spallucce e, da uomo di grandi vedute, disse che quella cifra si sarebbe potuta trovare ovunque.

Nel lasciarci mi diede un nome ed un numero di telefono, si trattava di Massimo Bergami, Socio e Segretario della Uildm, filosofo ed esperto di computer. Di lì a poco, andai a casa sua a trovarlo. L’impressione che ne ebbi fu immediata e netta: erano di fronte a Yoda il capo degli Jedi in «Guerre Stellari». Un corpo minuto, non completamente sviluppato, leggermente deforme a causa del mancato sviluppo della muscolatura. Occhi vispi, dietro ad occhialini rotondi con montatura ultra sottile, seduto su una carrozzella vecchia prima ancora di nascere. Mi chiese se mi interessavo di filosofia, io tagliai corto e gli dissi di no: ormai avevo una sola cosa in testa, la Cooperativa e lui si dimostrò interessato.

Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi iddio

L’Associazione che teoricamente avrebbe dovuto fornire più soggetti interessati all’impresa, l’ANMIC di Bologna, si dimostrò la più riluttante. Picciolo mi invitò a partecipare ad una riunione nella sede dell’Associazione con Mario Barbuto, un non vedente, direttore dell’Istituto Cavazza, suo grande amico e sponsor politico, per discutere della Cooperativa. Commise l’errore di anticiparmi l’argomento della riunione, non gli sembrava opportuno che fossi io candidato Presidente di questa nuova realtà. Ebbi pertanto modo di riflettere e presentarmi a quest’evento con la mente fredda e le idee chiare. Avevo 43 anni ed avevo già visto naufragare molte buone idee a causa di pochi stupidi arrivisti.

Solitamente credo che se qualcuno vuol fare una cosa, bisogna lasciargliela fare, ma questa volta decisi di vendere cara la pelle e di dire un no deciso.

Alla riunione doveva partecipare anche Marcello Camilli, che era sulle posizioni di Francesco. A mia volta, invitai William Vacchi, che si defilò con una scusa, ma che tuttavia fu categorico: il Presidente lo decidono i Soci.

Alla riunione riconobbi che l’idea della Cooperativa era di Francesco, ma che io avevo tutte le competenze necessarie, che ormai i soci li avevo trovati io e che, conoscendo me, sarebbe stato difficile tirar fuori dal cappello un nuovo Presidente. Mario disse che non erano in discussione le mie competenze, si trattava piuttosto di un problema di opportunità politica: l’impegno diretto di una grossa Associazione dell’handicap avrebbe rappresentato una garanzia anche nell’ambiente della Pubblica Amministrazione. Mi fece inoltre capire che le vicende della Spep mi avevano in qualche modo bruciato e che l’immagine della nuova Cooperativa avrebbe potuto soffrire a causa dei miei trascorsi fallimentari. Nonostante ciò non era assolutamente opportuno che io venissi messo da parte, ma che potevo fare il Direttore della società e Francesco il Presidente. In realtà, sapevo benissimo che non si sarebbe limitato ad un ruolo di rappresentanza, ma che sarebbe stato costantemente tra le scatole nelle faccende gestionali. D’altra parte non ho mai creduto nei ruoli di rappresentanza.

Deglutii diverse volte, per l’amarezza di quello che mi sembrava un tradimento da parte di due amici, ma anche perché le argomentazioni non erano prive di fondamento. Era un attimo: smollare il colpo o tenere botta?

Il contrattacco

Fui costretto ad essere sincero ed affidarmi all’istinto. E così dissi: «qualsiasi cosa succeda o voi mi possiate dire, una cosa è certa: io non voglio lavorare con Francesco. Il suo modo di porsi di fronte ai problemi mi inquieta e non voglio averlo fra i piedi. Se volete è una questione di pelle, ma oltre ai problemi della Cooperativa, non voglio anche lui».

Marcello bofonchiò qualcosa sull’importanza di avere la copertura dell’ANMIC e che per partire era meglio avere meno problemi possibili. Ci lasciammo in maniera interlocutoria, ma era evidente che la rottura era ormai consumata.

Nei giorni che seguirono passai al contrattacco. Scrissi una lunga lettera a Francesco dove gli ribadii, con qualche infiorettatura, la mia posizione, contemporaneamente chiese un incontro all’amico Michele Borra, Presidente dell’Istituto Cavazza, anche lui cieco, persona molto aperta e priva di pregiudizi. Gli esposi brevemente i fatti e gli dissi apertamente la mia posizione. Lui non dovette pensarci molto e per tirarsi fuori da ogni bega personale, disse che gli sembrava finito il tempo in cui le Associazioni dell’handicap costituivano Cooperative per poi controllarle. Ci lasciammo con la nostra amicizia più salda che mai e della faccenda non se ne parlò più.

Questa vicenda tuttavia aveva, in qualche modo, minato la mia fiducia nella buona riuscita dell’avvio della Cooperativa. Sentivo di dover far qualcosa per controbilanciare l’assenza dell’ANMIC e rassicurare tutti sul fatto che saremmo partiti bene. Il più preoccupato era Marcello che sembrava un pesce che annaspa sul bagnasciuga.

Fausta Giallombardo

Collaborava con me nella società Idee Fausta Giallombardo una signora della società bene di Bologna: ex insegnante, marito avvocato, ecc. All’idea della Cooperativa aveva reagito con grande entusiasmo, perché questo coronava un suo sogno di gran dama della carità, con salsa di innovazione tecnologica e spruzzatina di egualitarismo cooperativo. In un primo momento avevo provato a scoraggiarla ad aderire a questa strana impresa, dicendole che sarebbe stato importante che i Soci fossero tutti disabili, perché questo fatto avrebbe rappresentato un evento di tale novità da attirare l’attenzione di tutti i mezzi di comunicazione. Ma lei, con grande prontezza di spirito, disse: «Bene, così io sarò la mosca bianca, l’unica normodotata tra tutti voi disabili.»

Lo scontro con l’ANMIC mi indusse a non insistere ed anzi a favorire la sua presenza, cominciando a ventilare l’idea che potesse diventare Vicepresidente. Questo rassicurò molto Marcello, che se la immaginava mentre brandiva una spada fiammeggiante, contro ogni istituzione in difesa di noi poveri handicappati.

La Cgil

Arrivati a questo punto un’altra tegola cadde sulla nascente Cooperativa. La Cgil di Bologna fin dagli anni ’80 ha tra i suoi funzionari, un responsabile dell’handicap. Allora era Adriana Villone, una signora molto compresa nel suo ruolo, che svolgeva con impegno e dedizione.

Venuta a conoscenza della prossima costituzione della Cooperativa, pensò bene di cominciare a diffondere l’idea che i ragazzi sordi non potevano aderirvi, perché non avrebbero capito di cosa si parlava nelle assemblee e avrebbero rischiato di essere raggirati e turlupinati dagli altri.

La chiamai al telefono mi spiegò che non ce l’aveva con me, ma che non le sembrava giusto coinvolgere in una impresa privata, quale comunque è una Cooperativa, delle persone indifese come quei giovani sordi che avevo coinvolto. Balbettai qualcosa sull’auto aiuto tra disabili e che quello che poteva sfuggire a qualcuno sarebbe stato ben capito da altri. Misi anche davanti a tutto la mia persona che lei ben conosceva e la pregai di non generalizzare e di guardare al caso specifico. Niente, non ci fu verso di farle cambiare opinione.

Mi rivolsi allora all’amico Franco Di Giangirolamo, che era stato responsabile dell’handicap in Cgil prima di lei e che attualmente poteva essere considerato un suo superiore, perché si occupava di tutto il sociale.

Con Franco mi sfogai completamente: gli raccontai la storia dell’ANMIC e quella della sua collega. Lui stralunò completamente e, dopo aver plaudito all’ipotesi della Cooperativa, che secondo lui poteva avere interessanti prospettive di mercato, disse che gli sembrava incredibile che nel momento in cui tutti avrebbero dovuto essere vicini all’iniziativa, al contrario c’erano tutte queste opposizioni assolutamente incomprensibili e deprecabili. Avrebbe comunque cercato di parlare alla collega per evitare che facesse ulteriori danni. Dopo quella chiacchierata, di Adriana non sentii più parlare e tutto finì nella solita bolla di sapone.

Verso l’atto costitutivo

Intanto passava pigramente il tempo, erano già trascorsi sei o sette mesi, i ragazzi sordi e Fathi spingevano per il lavoro, mentre Fausta e soprattutto Marcello nicchiavano. Si avvicinò in quel tempo un altro candidato a Socio, Alessandro Galassi che aveva un piccolo problema alla vista e studiava ingegneria informatica. Peccato che per i suoi impegni di vita e di studio, non siamo mai riusciti a coinvolgerlo più di tanto.
Verso l’autunno del ’95 cominciò a farsi sempre più concreta l’ipotesi di un grosso contratto con l’ATC l’azienda trasporti di Bologna, per la gestione del loro centro copie. A quel punto Marcello stesso disse: «allora dobbiamo costituirci».

Ernesto Stasi, il marito della Fausta, avvocato civilista, ci aiutò a fare lo Statuto e prendemmo appuntamento con il notaio Moruzzi per il 9 febbraio 1996.

Nei giorni precedenti la stipula, mi telefonò una praticante di Ernesto, chiedendo il permesso di partecipare alla riunione di costituzione, perché non voleva perdersi quell’evento. Sul momento non capii bene il perché di tanto interesse, solo quando ci trovammo stipati in quella saletta polverosa del notaio mi resi conto dell’importanza dell’avvenimento.

Eravamo un gruppo eterogeneo di persone, per i quali era opinione diffusa che non avremmo mai combinato niente. Invece, eravamo li a costruire il nostro futuro, con una iniziativa che poteva essere di esempio per molti altri, rappresentando una via di uscita per l’emarginazione di molti disabili.

L’Alessandra Fantini, una delle ragazze sorde, arrivò in ritardo lamentandosi, quasi arrabbiata, perché non l’avevamo aspettata. Alla fine eravamo 16, anziché 9.

Io fui eletto Presidente e Fausta Vice di quella che fu nominata Virtual Coop.

Maurizio Cocchi